Anche quest’anno Sanremo è passato. Qualcuno ringrazierà il cosmo nel non vedere più i giornali e i social pieni di notizie legate al Festival, qualcun altro starà già aspettando trepidante che L’Ariston si riempia di nuovo.
L’Italia è fatta così: non esistono quasi mai le vie di mezzo.
L’anno scorso scrissi un articolo in cui citavo la canzone di Rose Villain e ricordavo la somiglianza tra il suo testo e quello di alcune poesie futuriste (lo trovi qui se te lo sei perso).
In questa edizione di cui si è tanto parlato nell’ultimo mese e i cui “prodotti” rimbombano nelle radio con la loro consueta insistenza, mi è saltato letteralmente agli occhi un aspetto che poco ha a che fare con la poesia e con le parole. È un lato delle performance che mi ha colpito fin dalla prima serata del Festival e che ha creato nella mia mente una vera dicotomia tra le canzoni presenti e l’intento per cui queste sono state presentate.
Non so se anche voi ci avete fatto caso, ma quest’anno più che mai il palco dell’Ariston si è trasformato in una piattaforma di lancio per coreografie e balletti.
Nulla togliendo alle canzoni (sono la prima ad attendere questo evento per ascoltare nuove melodie o nella speranza di ascoltarne) questo fatto del dover ormai abbinare per forza una coreografia alle musiche mi fa riflettere.
È come se al pubblico ormai non bastasse più solo l’ascolto, il godere della musica concentrandosi sulle parole e sulla voce dell’artista. Si ha la necessità quasi maniacale di creare un balletto da associare alle parole cantate, studiato a tavolino per attrarre l’occhio e intrattenere sotto tutti i sensi il fruitore del contenuto.
Da Marcella Bella a Willy Peyote, da Elodie a Rose Villain, da Gaia a Serena Brancale, dai Coma Cose a Clara: tutte i loro brani sono stati accompagnati da coreografie, alcune di queste firmate da coreografi sconosciuti fino a qualche anno fa e che mai come ora stanno giustamente reclamando la loro esistenza.
(Vedi Carlos Diaz già coreografo di Mahmood in “Tuta Gold”, salito alle luci della ribalta ultimamente non per la sua indiscussa bravura ma per la sua simpatia e le sue misure: inutile nascondere ipocritamente la verità.)

L’attenzione quindi è passata dall’ascoltare i testi delle canzoni al focalizzarsi solo sui gesti da replicare davanti alla telecamera dello smartphone per poi postare la propria versione del balletto sui social. Da TikTok a Instagram, il mondo virtuale si è riempito di video brevissimi di gente che si atteggia da star ballando sola in camera, in cucina o in bagno per attirare like. Tante copie della stessa matrice, tante riproduzioni identiche tra loro pubblicate solo per apparire partecipi al trend del momento.
Il mondo si sta sempre più astraendo dal reale per vivere la propria esistenza sull’universo dei social, dove tutti si sentono bravi, tutti si sentono atletici, tutti si sentono partecipi.
Il Festival di Sanremo quest’anno ha sancito ufficialmente la sua dipendenza da questa nuova realtà fittizia, questa iperrealtà da cui ormai la nostra specie sta diventando sempre più dipendente.
Io non sono una grande fan dei social, orami lo si sarà capito. Preferisco la realtà concreta a quella virtuale. Ma mi inquieta parecchio il notare come le due facce del nostro presente, quella fuori e quella dentro al mondo dei social, si stiano poco alla volta fondendo.
Da bambina guardavo il Festival di Sanremo e attendevo per settimane con pazienza che uscissero i CD contenenti le canzoni proposte. Le ascoltavo e riascoltavo, immaginavo amori, cantavo rabbie, mi ispiravo sognando un giorno di scrivere e cantare canzoni, come ogni adolescente dovrebbe fare.
Oggi i ragazzi conoscono il Festival di riflesso tramite i reel dei balletti su Tik Tok, copiano e imitano le star per qualche settimana finché il trend del momento non cambia.
Oggi ballano la canzone di Gaia, domani seguiranno i passi di un influencer di Philadelphia, tra due settimane copieranno Will Smith e il suo balletto del Principe di Bal Air.
Così avanti di mese in mese, sterilizzando la loro fantasia.
Tutto solo per ottenere like, tutto solo per ottenere…cuoricini.
La T.V. e i media sono da molto tempo usciti dal loro spazio mediale per investire dall’interno la vita «reale», proprio come fa il virus con una cellula normale. Non vi è bisogno di un casco né di una combinazione digitale: è la nostra volontà che finisce per muoversi nel mondo come in un’immagine di sintesi. Tutti abbiamo inghiottito il nostro ricevitore.
Jean Baudrillard – “La televisione ha ucciso la realtà” 1995
Se ti affascina il tema del mondo social e di come la realtà di stia modificando spostandosi nell’universo virtuale, ti consiglio questo episodio monografico di Daily Cogito dedicato a Jean Baudrillard, filosofo del secondo novecento che con i suoi scritti ha predetto il nostro presente.
Se ti è piaciuto questo articolo ti invito a visitare questa pagina in cui troverai altre riflessioni. Buona lettura!
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